Il suolo di un ecosistema naturale ha la capacità di limitare la crescita eccessiva dei microrganismi patogeni grazie alle proprie caratteristiche di soppressività. Secondo la letteratura scientifica, un terreno soppressivo è un suolo in cui il patogeno non si stabilisce o non persiste, si stabilisce ma causa danni nulli, oppure riesce a stabilirsi e moltiplicarsi ma causa danni di lieve entità.
Questo perché tale tipologia di terreno contiene sostanza organica che supporta lo sviluppo di un microbiota diversificato. In ambienti naturali, quindi, i microrganismi benefici contrastano la proliferazione eccessiva di organismi specifici, molti dei quali sono patogeni di piante, mantenendo un certo equilibrio nel tempo.
Permissivi e soppressivi
Nel caso dei suoli coltivati, invece, la presenza di poche specie e il ricorso a pratiche intensive o semintensive instaura un basso livello di biodiversità a carico del microbioma presente, rendendoli suoli permissivi.
Questi suoli consentono, all’opposto dei suoli soppressivi, la proliferazione dei microrganismi dannosi, causando danni considerevoli alle piante. Ciò accade spesso nei suoli agrari affetti da stanchezza del terreno, o sindrome da reimpianto, caratterizzati da una bassa quantità di sostanza organica e scarsa flora microbica, a causa delle mancanti pratiche rigenerative adottate nel corso di più cicli colturali. Infatti, le pratiche agricole comuni, come la lavorazione del terreno, la fertilizzazione, l’uso irrazionale degli agrofarmaci e l’irrigazione, influenzano negativamente lo sviluppo di un equilibrato microbioma, riducendo la capacità del suolo di sopprimere i patogeni invasivi, rendendolo pertanto meno fertile e più soggetto a fitopatie nel tempo.
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